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La storia

Il maresciallo Oscuri, l’investigatore che fece la storia della Questura di Milano

Il ricordo intenso e umano di Ferdinando Oscuri, il maresciallo di ferro nato a San Ferdinando di Puglia, protagonista di alcune delle pagine più memorabili della cronaca nera italiana

Oscuri e Nardone diretti in Venezuela

Oscuri e Nardone diretti in Venezuela

TARANTO - Era settembre. Una sera umida di 57 anni fa. Un apprendista litografo di 16 anni, impugnando un fucile da caccia calibro 16 sottratto poco prima nell’abitazione di un portinaio di Segrate, a un tiro di fionda da Milano, si appostò, fece fuoco contro due giovani in cerca di solitudine e poi a un passante che sentito il colpo era accorso. Uno fu ucciso e l’altro ferito gravemente, mentre la donna riuscì a salvarsi. Il ragazzo venne acciuffato dopo poche ore, dodici per la precisione. Un’inchiesta rapida, dunque, eseguita con un gioco di intelligenza da uno dei pilastri della questura di Milano, stimato, rispettato e amato anche dai funzionari: il maresciallo Ferdinando Oscuri, pugliese, di San Ferdinando di Puglia. “Perchè hai compiuto questo gesto folle?”. “Volevo una donna”, la risposta. “Non potendola avere con altri mezzi, non rimaneva che il fucile?”. “Volevo solo spargere paura, non uccidere”.

L’omicidio andò in prima pagina. I quotidiani del pomeriggio, “La Notte”, “Il Corriere Lombardo”, “Il Corriere d’Informazione” hanno cibo per settimane. A fornirlo non è Oscuri, il maresciallo di ferro, che qualcuno definì Hercule Poirot, lasciando indifferente il poliziotto. Oscuri era un uomo concreto, schivo, per nulla in cerca di clamore. Aveva lavorato con uomini di grande valore, tutti dello “staff” di Mario Nardone, come Vito Plantone, di Noci, Enzo Caracciolo, di Messina, ed altri poi diventati questori o prefetti. Oscuri aveva tante qualità: una forza da Carnera, un coraggio che non si piegava di fronte a nessuno. Era in grado di prendere per la collottola un “boss” incallito, se recalcitrava.

Era temuto e rispettato. I cronisti che cercavano di assediarlo tornavano a casa spesso a mani vuote. Quando era di buzzo buono li invitava ad andare da Vito Plantone, che allora dirigeva l’ufficio antirapine, o da Enzo Caracciolo, capo della squadra Mobile. Ma entrambi si chiudevano a riccio. E i cani da tartufo, maratoneti provetti, frugavano altrove: ne avevano di rivoli per dissetarsi.

Non erano i tempi delle conferenze-stampa, dove però spesso si dice e non si dice e i racconti sono monchi ed elaborati. Tanti episodi don Ferdinando, come amavo chiamarlo, me li snocciolò quando, ormai in pensione, era ammalato e stava sempre a letto. Io andavo a trovarlo un paio di volte la settimana, per affetto, non per strappargli chicche, per carità: eravamo amici e mi piaceva fargli compagnia, distrarlo dal male che lo affliggeva. Qualche vice questore, che lo ammirava per le imprese da lui compiute, mi chiedeva di accompagnarlo e al Poirot brillavano gli occhi.

Un suo collega, andato in pensione da prefetto, Francesco Colucci, a cui lo legavano stima e amicizia, mi diceva: “Ci vediamo a casa di Ferdinando” ed eravamo entrambi puntuali. Ogni tanto Ferdinando chiamava l’anziana signora che l’accudiva e la pregava di offrirci qualcosa, ma noi schivavamo la cortesia.

I  marescialli Giannattasio e Oscuri

Oscuri aveva voglia di parlare. Non soltanto dell’assassinio del sedicenne. Voleva parlare, anche perché pensava che io prima o poi avrei scritto un libro. “Lo ricordi il pomeriggio di fuoco scatenato dalla banda Cavallero il 25 settembre del ‘67 dopo la rapina all’agenzia del Banco di Napoli in largo Zandonai?”. “Sì, quattro morti e alcuni feriti, tra cui il maresciallo Siffredi. Spararono all’impazzata”.

“Io ero in questura quando mi arrivò la notizia. E mi precipitai sul posto. Al ricordo mi fa ancora rabbia. Li prendemmo, ma c’era la sofferenza del mio collega”. E poi ancora: “E le tute blu che cosa ti dicono?”. I banditi che il mattino del 27 febbraio del ‘58 assaltarono il furgone carico di soldi e poi gettarono le tute nell’Olona. Fu proprio lui a scoprirle.

Il capo della Mobile Zamparelli portò i suoi uomini alla Messa nella chiesa di Santa Rita (di cui era devoto), nei pressi del Naviglio Grande. Non mi faceva le domande per provare la prontezza dei miei ricordi: era il suo modo di introdurre un argomento.

E ritornò quello del ragazzo che voleva conquistare una donna con la bocca di un fucile. Oscuri aveva ancora una memoria lucida. Non sbagliava una data, non confondeva i protagonisti della malandra. Non rispose solo a una mia curiosità: “Come si comportavano i duri una volta in via Fatebenefratelli, di fronte ai cacciatori di criminali”. Capii che non voleva far torto a chi oltre la scorza un po’ di paura ce l’aveva.

Lo invitai a ripercorre la notte del delitto di Segrate. “Ero a casa quando mi sorprese la telefonata che mi avvertiva del delitto. Mi precipitai sul posto, una strada campestre che iniziando dal fondo di via Corelli si dilegua nel Parco Forlanini. C’era un’Appia bianca sul ciglio, il cui paraurti era imbucato in una cunetta. Da quella poco prima un uomo era scivolato a terra: il volto una maschera di sangue. Quaranta metri più avanti era parcheggiata una 1100 nera e di fianco il corpo di un uomo morto, il cui viso era stato bersaglio di una scarica di pallettoni. Pensai a un regolamento di conti fra bande rivali”.

Sul bordo della via Oscuri, esperto di caccia, trovò una cartuccia di fucile calibro 16. Avvertì il capo della Mobile Caracciolo, informandolo che a Milano c’erano pochi esemplari di quell’arma. Improvvisamente una voce della Volante: “Nell’appartamento di un portinaio di Segrate è stata rubata da un armadio un fucile”. Da lì si illuminò una pista. Oscuri la seguì...

Mi colpiva la capacità di questo investigatore in condizioni di salute non ottime di raccontare anche nei dettagli fatti lontani nel tempo. “Interrogando il giovane in questura gli offrivo biscotti e cioccolata. Poi la domanda-trabocchetto”.

Per la prima volta si trovò – dice – in difficoltà in un interrogatorio: era un ragazzo. Le indagini erano concluse. Ascoltai con attenzione e scoprii che questo mio amico così severo, inflessibile, deciso, quando era in attività poco loquace, aveva una grande umanità.

Di storie Oscuri, in polizia dal ‘41, poteva tirarne fuori tante. A partire dai tempi in cui scarpinava con Mario Nardone. Conosceva la malavita, grossa e piccola, “boss” e gregari, indirizzi, abitudini, luoghi frequentati. Dalla tecnica impiegata in un’impresa risaliva all’autore. Spesso si trasformava in lupo solitario, come Nardone. Aveva il fiuto del felino, l’occhio dell’aquila.

Mario Jovine, un napoletano che suonava la chitarra, già vicecapo di Nardone alla Mobile, amava anche lui la carota, il giochetto, lo scherzo per indurre le bocche cucite ad aprirsi. Antonio Pagnozzi, indagando su un sequestro di persona, le inventava tutte per far credere ai banditi che la famiglia della vittima aveva le tasche vuote.

Vito Plantone, pur essendo come gli altri ligio al dovere, aveva il pugno morbido, usava la tattica. E tutti e tre, come gli altri, avevano come amico Oscuri. Plantone lo ricevette qualche giorno prima di morire. In questura don Ferdinando era un’istituzione.

Chiesi a Ferdinando: “Per te i cronisti erano delle zecche?”. “Avevo rispetto per il vostro lavoro, ma le indagini andavano tutelate: una parola di troppo poteva farle saltare. Nei giorni dell’interrogatorio di una donna autrice di una famosa strage, (osservo il diritto all’oblio) io sapevo che un giornalista si era appostato sotto una finestra per catturare le voci; ma sapevo anche che faceva uno sforzo inutile”.

Eh, quella giornata tragica del 30 settembre ‘46, in un piccolo appartamento di via San Gregorio 40. “Io prelevai la donna sul posto di lavoro e lei anziché la sua pelliccia che aveva la fodera sporca di sangue cercò d’indossare il cappotto di una collega”.

Se avessi voglia, scriverei un libro per raccogliervi i ricordi di Ferdinando Oscuri, di consorterie di rapinatori, omicidi, truffatori. Accennai alla “banda dovunque”, che, sorta il 30 marzo del ‘49, fu soffocata nell’ottobre dello stesso anno. Era composta da gente dura, decisa, incallita, disposta ad andare allo sbaraglio; vero, Ferdinando? “Sembravano avere il dono dell’ubiquità”: si spostavano con la velocità del ghepardo.

Poi ce ne furono altre, di bande. Vito Plantone le descriveva a memoria: la banda del buco, la banda dei tir, la banda del lunedì, dei bravi ragazzi di Angera, la banda del cinese. Plantone fece il giro d’Italia per identificare e mandare al gabbio quelli che avevano assaltato il furgone della Stefer nell’81. E li pescò sull’orlo della piscina di un lussuoso albergo siciliano. Uno di loro tentò di prendere il borsello, che aveva dentro la pistola, e Plantone con la sua calma serafica gli disse semplicemente: “Non ti conviene”, pur non avendo un’arma puntata. “Ti ricordi, Ferdinando?”. Se lo ricordava, eccome.

Qualche giorno dopo mi telefonò la signora che l’assisteva. Una parola sola: “Ferdinando…”. Compresi che se n’era andato.

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