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STORICO

Cherokee

di Antonella Ridoni

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Cherokee

di Antonella Ridoni

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Ormai sono giorni che camminiamo senza sosta, con poco riposo, poca acqua e cibo. Ci hanno promesso una nuova terra dove potremo iniziare di nuovo la nostra vita, ricostruire il villaggio, consolare chi ha perso i propri cari in questa guerra che non abbiamo voluto. Stiamo terminando le scorte materiali e la pazienza. Il nostro popolo è un popolo fiero, non poteva piegarsi a chi vuole usurpare il nostro territorio, distruggere le nostre tradizioni. Le loro armi sono potenti: sparano un fuoco che uccide anche da lontano e non si combatte solo con il coraggio e la volontà, quindi Guwisguwi, il nostro capo, ha fatto un accordo; ha dovuto cedere e ha acconsentito a trasferire tutti quanti noi in un altro luogo. Purtroppo, ha capito che doveva accettare: ci avrebbero sterminato come hanno fatto con altri gruppi che non si sono voluti spostare.
Ma non sapeva che lo avremmo fatto a piedi, per più di 900 miglia, tutti scalzi, anche i bambini e gli anziani, con poche soste per riposare, guardati a vista da soldati dallo sguardo cattivo e avido, capaci di ogni violenza, pronti a usare i fucili per un nonnulla.
I nostri anziani sono morti quasi tutti nel viaggio. Molti adulti e tanti, troppi, bambini si stanno ammalando.
Guwisguwi, a testa alta, ci guida e ci incoraggia a proseguire, ci parla delle nuove terre dove staremo finalmente in pace. Sono Ayana (“Fiore Eterno”), sua moglie, fiera di lui. Porto sulle spalle Yuma, nostro figlio, il figlio del capo. Le nostre famiglie si conoscono da sempre. Dal primo giorno in cui ho visto Guwisguwi, il mio cuore è stato suo. Quando mio padre mi ha chiesto se volevo essere guerriera o sposarmi non ho avuto dubbi e ho indicato lui. Sempre lui.
Ero destinata a essere la moglie del capo tribù, a dargli dei figli che dovevano essere forti, grandi cacciatori e saggi capi del nostro popolo. Ho promesso di stare con lui e adesso lo seguo, lui è davanti e ci indica la strada. Io sono nel gruppo delle donne. Metto un piede davanti all'altro e vado avanti con il peso di Yuma sulle spalle che diventa sempre più pesante. Stringo i denti e non penso a quanti di noi si sono accasciati lungo questo sentiero che sembra non finire mai.
Preferisco pensare al giorno in cui siamo entrati nel cerchio sacro e abbiamo camminato, io e il mio uomo, promettendoci amore e rispetto, mentre venivamo aspersi con incenso di salvia bianca che purifica e prepara a una nuova vita insieme. Davanti al fuoco io gli ho donato una spiga di grano e lui una piuma di aquila reale che porto, nascosta, sotto il vestito, sul cuore. Con i polsi legati abbiamo bevuto acqua benedetta dal vaso con due beccucci e abbiamo iniziato la nostra vita insieme. Felici. Abbiamo fatto festa, tutti si sono rallegrati. Mi concentro sulla bellezza di quello che abbiamo vissuto. Voglio pensare solo a questo. Mi nutro dei bei ricordi che ho nel cuore e ben fissati in mente. Se inseguo questi dolci pensieri non mi accorgo della durezza del cammino che sto intraprendendo assieme alla mia tribù.
Siamo in questo viaggio così faticoso. Non avrei mai pensato di lasciare la mia terra. Sono stata orgogliosa di aver dato alla luce un figlio maschio molto presto. Anche questo è un dolce ricordo: quando è nato, la gioia negli occhi di mio padre, mia madre, del mio uomo che, preso in braccio Yuma, lo ha mostrato a tutti quelli che stavano fuori dalla tenda in attesa di notizie. Come era orgoglioso e felice!
Tutti sono stati felici per noi allora, come ora sono gentili durante questa dura prova. Per rispetto, ma anche per affetto, ne sono sicura.
Però, ora ho un peso grande nel cuore: so che Yuma non sta bene. Scotta. Dorme troppo.
Lo porto legato sulle spalle, ho pensato che fosse meglio così, che lo avrei potuto portare più comodamente, e non avrebbe camminato scalzo. Ma sono stanca e pesa molto, oggi, poi, sento che sta peggiorando. Non ho ancora detto niente per non rallentare la marcia e per non dare un dolore al mio uomo.
Vorrei tornare al giorno felice in cui ho unito la mia vita a quella di mio marito. Quando la coperta della tristezza è stata sollevata e al suo posto, i testimoni di nozze, ci hanno ammantato con la coperta bianca, l'augurio di una vita felice. La coperta la porta lui arrotolata sulle spalle, la notte la usiamo per coprirci tutti e tre. Quando sono lì sotto, con la mia famiglia, immagino che presto finirà la fatica e il dolore e mi piace pensare che sotto la nostra coperta niente potrà farci male. Come quando eravamo nella nostra tenda, il nostro piccolo, intimo mondo.
Ma la tranquillità è finita troppo presto.
Adahy, (Misterioso) il fratello di Uccello Bianco, ha voluto imparare la loro lingua, quando sono arrivati gli stranieri, ha cercato in tutti modi di essere come loro. Voleva convivere e portare i loro usi e costumi dentro la nostra tribù e i nostri nella loro vita. Mio marito si è opposto. Aveva capito che non erano sinceri, che non avremmo avuto niente di buono dall'amicizia con un popolo che si era mostrato da subito avido e bugiardo.
Ma Adahy non ha voluto ascoltare e ha iniziato a stare sempre più tempo nel loro fortino. Ha iniziato a vestirsi come loro. Ha scambiato il nostro oro con i loro vestiti. Questo ha fatto nascere in loro, non il desiderio di una convivenza pacifica, ma la voglia di prendere tutte le nostre ricchezze, tutte le nostre cose, la nostra fertile terra. Di vivere nei nostri luoghi al posto nostro.
Ha scatenato la corsa febbrile a cercare oro nei nostri fiumi, e a considerarci gli ostacoli per arrivare alla ricchezza sognata.
Yuma respira affannato. Io raddrizzo le spalle e guardo avanti.
La vecchia Halona (“Fortuna Felice”) mi guarda e sa. Ho capito che sa. Non abbiamo erbe per curare la febbre e non ci permettono di fermarci per cercarle. Mi guarda con i suoi occhi che scrutano nel profondo le anime.
Alzo lo sguardo sulle colline all’orizzonte, al di là delle quali saremo finalmente arrivati. Manca poco. Devo resistere e devo cercare di tenere in vita Yuma. È la nostra speranza, è l’orgoglio di tutta la tribù.
Sento il suo corpo che respira sempre più piano sulla mia schiena, cerco di non fare troppi balzi per farlo stare il più comodo possibile.
Non si nutre da giorni: non si attacca più al mio seno.
Temo che sia troppo tardi…
Halona si avvicina e mi tocca una spalla, con il capo indica Yuma.
Devo fermarmi e non posso più tacere. Cerco con lo sguardo Guwisguwi ed emetto il nostro grido di richiamo. Si volta, mi guarda e mi raggiunge. Capisce e alza il braccio, chiede attenzione e tutti si fermano.
Con le lacrime agli occhi gli indico Yuma. Lo solleva lui dalle fasce, lo stringe per un po' e poi me lo mette in braccio. Yuma scotta tanto e non apre gli occhi. Ha di nuovo il respiro corto e affannato.
Halona gli tocca il torace, gli ausculta la schiena, e poi, mestamente, scuote il capo.
I soldati non vogliono fermarsi e ci incitano a proseguire, ma Adahy, parla con il loro capo; Adahy che conosce la loro lingua. Per un momento penso che questo è l'unico vantaggio che abbiamo ottenuto dalla sua amicizia con gli stranieri.
I soldati stavolta, stranamente, mostrano un po’ di pietà e accettano di fermarsi per una sosta più lunga del solito.
Cerco con lo sguardo un posto riparato dove provare di nuovo a dargli un po’ di latte.
C’è un piccolo bosco e mi avvio da quella parte. Mi siedo a terra, poggio la schiena su una quercia, mi giro per non farmi vedere da occhi rapaci e lo avvicino al mio seno, ma lui non mostra segni di volersi attaccare neanche stavolta. Però apre gli occhi, guarda suo padre, mi guarda e cerca di sollevare una mano per darmi una leggera carezza, la prendo e me la porto al viso. Piena di speranza che possa essere un segno di ripresa inizio a chiamarlo, a parlargli della nuova terra, di quante cose potremo di nuovo fare: giocare, andare a pescare, accendere un fuoco, e sembra che mi stia ad ascoltare. Gli canto la nostra canzone, sussurrando, perché orecchie crudeli non la sentano, è troppo bella e pura perché la malvagità sia degna di ascoltarla. Sorride lievemente. La speranza cresce. Ma dura poco: Yuma si volta di lato, la sua manina ricade inerte e i suoi occhi piano, con dolcezza si chiudono. Con un sospiro vola via da me.
Ed è un urlo che scaturisce direttamente dal mio ventre quello che sentono tutti; anche i soldati ammutoliscono.
Adesso devono tutti sentire. Anche al di là delle colline, in tutte le terre conosciute, oltre il cielo e le nuvole.
Vedo tutto annebbiato e non ho la forza di muovermi. Dolore e rabbia mi invadono. Penso che se non mi alzo mi spareranno e non mi importa. Resto immobile come una statua di sale. Stringendo Yuma forte al petto, cullandolo in una danza lieve e muta piena di dolore, solo per me e lui.
Ma devo essere forte: la donna del capo tribù non piange mai.
Chiudo gli occhi per ricacciare indietro ogni lacrima, come sto facendo da quando ho lasciato la mia terra.
Serrandoli forte, tra le ciglia, inevitabile, si forma una goccia di acqua salata intrisa del dolore più grande che una madre possa provare. Lentamente scivola giù e cade sul terreno. Mi sembra quasi di udirne il rumore che fa cadendo. Il suono del liquido che batte sulla terra secca sembra assordante e mi fa aprire gli occhi.
Guardo in basso dove è caduta la mia lacrima stringendo ancora più forte Yuma, e mi sorprendo: è spuntato un germoglio verde, fresco e rigoglioso di una rosa. È una piccola consolazione, ma un regalo prezioso e inaspettato. La risposta della natura al dramma: l'arrivo di un fiore al posto di un altro fiore che se ne va. Ne traggo vigore in mezzo alla disperazione.
Rialzo il capo e consegno Yuma a braccia amiche e pietose per la sepoltura.
In questo tenero germoglio vedo la testimonianza di vite sacrificate alla sete di conquista di un popolo su un altro popolo.
Si chiamerà “Cherokee” questa rosa.
Prenderà possesso del sentiero e nei secoli ricorderà con il suo portamento slanciato, ma vigoroso, il popolo di cui porta il nome; un popolo fiero che ha subito perdite di vite notevoli, ma non ha perso la sua dignità e identità, mantenendo tradizioni e cultura, ricostruendo la propria civiltà anche dove è stato costretto a trasferirsi.


La leggenda racconta che bianche rose delicate sbocciarono lungo il sentiero delle lacrime, cinque petali come il numero dei clan della tribù, bianchi come le lacrime delle madri che hanno perso le loro creature lungo quel cammino crudele che sembrava non finisse mai, e gialle al centro, come l'oro che gli Yankee portarono via agli indiani.

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